di Laura Caputo, amica del gruppo Facebook “Erbe aromatiche e spezie”, non sei ancora iscritto? Che cosa aspetti? Iscriviti qui
Mise la chiave nella serratura, soppesando il portachiavi. Tutto gli sembrava strano: strano che fosse lui a aprire il negozio a quell’ora del mattino, strano che si trovasse in mano quella rosa d’argento che aveva regalato a sua madre, ciondolo sproporzionato per il semplice anello che racchiudeva le tre chiavi della bottega, strano che fosse toccato a lui raccogliere da terra le due fatture e la pubblicità infilate sotto alla saracinesca.
Nella penombra aspirò lo stucchevole profumo delle tuberose che si disfacevano lentamente. Cercò di dare una spiegazione e un nome all’assurdo sentimento che lo abitava, all’esaltazione che gli faceva battere più forte il cuore suscitando in lui la percezione di una nuova forza. Si raddrizzò adottando una posizione quasi marziale, si guardò in giro, decise che avrebbe cambiato l’illuminazione e spostato il bancone. E poi avrebbe venduto soltanto rose: a lui, gli altri fiori non piacevano.
Aveva tentato di convincere sua madre, senza mai riuscirci:
<<Qui un fiorista così non c’è! Avresti clienti diversi, migliori, che non badano a spese pur di avere precisamente quella rosa che hanno scelto, che io selezionerei su richiesta. Quel fiore che desiderano offrire alla donna dei loro sogni, quella che la rappresenta …>>
E poi si scaldava spiegando:
<<A ogni donna corrisponde una rosa, tu non ci hai mai fatto caso, povera mamma … Tu, per esempio saresti una rosa canina – lei guardava smarrita i fiori esposti – no, non la vendi, non è un fiore da taglio, è uno modesto e selvatico, antico e schivo, una piccola corolla con cinque soli petali celebrata perfino da Plinio il Vecchio che già le riconosceva proprietà medicinali quasi miracolose. Si trova nel mondo intero. Come tutte le madri che hanno cura dei figli e rimangono dietro le quinte, nell’ombra …>>
La madre sorrideva annuendo e pensava che quel suo unico figlio somigliava troppo all’uomo che l’aveva amata un istante e poi era sparito, un essere elegante, dal linguaggio forbito e dal gesto disinvolto.
Nessuno comprendeva il suo piccolo come lei. Già da bimbo era diverso. Non urlava come gli altri, succhiava il latte con delicatezza, si muoveva poco, teneva gli occhi socchiusi e la seguiva con lo sguardo quasi di nascosto. O almeno a lei così pareva quando si girava di scatto a guardarlo e lui sembrava fissare il vuoto, dritto davanti a sé.
Anche a scuola c’era stato qualche problema: le insegnanti non lo avevano in simpatia e i professori gli rimproverano la sua doppiezza. A nulla era servita la sua timida arringa davanti agli uni e agli altri: Ottavio era stato irrimediabilmente bocciato alla fine della seconda superiore. Non era più tornato a scuola, ma aveva assiduamente frequentato la biblioteca comunale per almeno un anno: ne era uscito con un cultura raffazzonata, ma profonda, sulla coltivazione delle rose. Aveva preteso che lei gli comprasse un pezzetto di terra in collina, piccolo ma ben orientato, dove praticare i suoi esperimenti botanici. Aveva ceduto subito: come negare qualcosa a lui che non chiedeva mai nulla?
Era appena stata sepolta con il collo spezzato da una caduta.
Era salita sulla scala a portafoglio senza aprirla tutta, in fretta come al solito. Il suo peso pur leggero doveva averne provocato l’apertura improvvisa e lei, con le mani occupate dai vasi di fiori, era andata a sbattere con violenza contro uno spigolo, senza potersene proteggere, e poi per terra.
Un cliente l’aveva trovata fra la scala e gli scaffali, seduta in una posizione innaturale come una bambola rotta.
Guardò bene dove metteva i piedi e si avvicinò. Allungò la mano destra e posò due dita sulla carotide della donna per sentire l’eventuale pulsazione. Constatò che la pelle era già fredda e la pulsazione assente e se ne allontanò con la medesima circospezione che aveva usato per avvicinarsi. Estrasse il cellulare, compose il numero del suo ufficio, spiegò brevemente e con chiarezza ciò che aveva trovato.
Interruppe la conversazione, intascò il telefono e si guardò intorno.
Non c’era alcuna traccia di possibile colluttazione: il bancone era in ordine perfetto come al solito, a terra solo un vaso rotto, una decina di rose e una pozzanghera d’acqua che si era allargata inzuppando il grembiule della donna. Lei, seduta a terra con la gamba sinistra ripiegata sotto il corpo, la schiena appoggiata al bancone, le braccia inerti e la testa piegata ad angolo retto, appoggiata sulla spalla sinistra. Considerò la scala ancora aperta, immaginò senza riuscirvi la traiettoria possibile del corpo, scosse la testa alzando le spalle: stavano arrivando i suoi e si sarebbero occupati di tutto. Lui era persona informata dei fatti e non poteva intervenire: non era proibito espressamente, ma era meglio così.
Conosceva benissimo la signora: ormai da un anno ci andava regolarmente, sceglieva e pagava un mazzo di rose, lo faceva consegnare a Ofelia, la donna che lui amava senza speranza. Talvolta le chiedeva consiglio:
<<Lei è una donna, saprà …>> ma lei si schermiva.
<<No, Ispettore, no. Ho conosciuto l’amore, ma solo per un attimo breve. Un amore travolgente che è nato, cresciuto e morto in meno di un mese …>>
<<E poi?>> incalzava Magli che, da quando a sua volta provava quel sentimento, si interessava alle storie d’amore altrui, sperando di trarne insegnamento.
<<E poi … basta. – arrossiva lei – che cosa le preparo oggi?>> e cambiava discorso.
<<E’ morta da meno di un’ora – lo riscosse il medico arrivato con l’ambulanza – la prendiamo o c’è qualcos’altro che interessa la polizia?>>
Magli guardò i due colleghi, cogliendone un cenno di approvazione:
<<E’ evidentemente un decesso provocato da un incidente. Disponete.>>
Un agente scattò qualche fotografia, si avvicinarono i portantini con la barella, la caricarono, la copersero con un telo e la portarono fuori.
Si stava chiedendo se aveva parenti, se doveva avvertire qualcuno:
<<Che succede? – e poi senza alzare la voce, con tono definitivo – Mamma.>>
<<Lei è … Com’è entrato qui!>>
<<Ottavio Rossetti, sono il figlio della titolare. E … >>
<<Venga, si accomodi. Purtroppo sua madre ha avuto in incidente … un incidente mortale. Pensiamo sia caduta mentre …>>
Il sangue defluì dal suo volto, non diede alcun segno di avere capito, non rispose: si lasciò cadere sull’unica sedia, quella dove sua madre faceva accomodare i clienti che desideravano scrivere due righe in tutta riservatezza. Magli temette che stesse per svenire, poi si accorse che stava dondolandosi avanti e indietro sussurrando e, stupito, tese l’orecchio senza interromperlo:
<<Te l’avevo detto che dovevi stare attenta … te l’avevo detto che dovevi stare attenta … te l’avevo detto … te l’avevo … >>
Il dolore provoca strane reazioni, pensò alzando le spalle, poi si decise:
<<Vuole chiudere e venire con noi al Commissariato? Se la sente? Vuole che la accompagniamo … Senta, facciamo così: lei ha le chiavi del negozio? No? Ah, eccole qui appese, sono queste vero? Noi chiuderemo per un giorno o due, il tempo che il medico legista confermi le cause accidentali del decesso … Ora andiamo in ufficio e scriviamo due righe. Qui non credo … non c’è nulla da fare, qui. Ma non si sa mai … Ascolti, deve avvertire qualcuno? Bene, allora venga con me, la riaccompagnerò quando avremo finito.>>
Lo prese per un braccio e lo guidò con delicatezza fino alla sua auto. Aprì e rinchiuse la portiera, fece il giro e sedendo si accorse che non metteva la cintura, ma trattenne l’impulso di farglielo notare. Guidando gli lanciava qualche occhiata sottecchi, pensando che non avrebbe dovuto partecipare a quell’indagine, ma che aveva fatto come spesso, troppo spesso gli accadeva: si era caricato di una responsabilità che non gli competeva e che poteva causargli solo problemi.
Alzò le spalle, poi sottovoce:
<<Volevo comperare delle rose …>>
<<Oh, mi dispiace che non abbia potuto farlo! – rispose Ottavio con surreale compita empatia – per chi?>>
<<Per la signora Amandier, Ophélie Amandier…>>
<<Certamente delle Lincoln. Conosco Madame Amandier, a lei si adatta perfettamente questo fiore dal colore cupo, così eretto, ampio e vellutato, profumato … – sembrava riflettere ad alta voce – una rosa che, una volta tagliata, può durare a lungo senza nulla perdere della sua sensualità …una sola in un vaso, una corolla tanto voluttuosa, dei petali carnosi appena nervati come una tenera carne di donna … mi scusi.>> arrossì concludendo.
Un lontano campanello suonava nella testa dell’isp. Magli ma non lo ascoltò, continuò a guidare:
<<Non l’ho mai visto in negozio: non aiutava sua madre?>>
<<No, abb… avevamo idee diverse sulla gestione. Mia madre è una donna leggermente antiquata, senza alcun senso del commercio. E poi, sa – continuò quasi confidenzialmente – io vorrei vendere soltanto rose, la rosa è l’unico fiore che trasmette al destinatario la comprensione di chi le offre. Ora…>>
Spiacque a Magli di essere arrivato nel parcheggio, proprio nel momento in cui il suo passeggero sembrava disponibile a qualche confidenza. Malgrado ciò, chiese ancora:
<<Dov’era questa mattina?>>
<<Oh, nel mio terreno. Sa, ho un piccolo appezzamento sull’Appennino, faccio degli esperimenti, degli innesti … Fa caldo, sono salito prestissimo per innaffiare, poi c’è sempre qualcosa da fare lassù…>>
<<C’era qualcuno con lei?>> insistette mentre tirava il freno a mano.
<<No, ispettore, certo che no: io lassù vado sempre da solo. Non condivido la cura delle mie rose con nessuno. Ma, scusi, perché mi fa questa domanda?>>
<<Deformazione professionale. Anche se non ho alcun dubbio. La signora è caduta dalla scala, forse un giramento di testa. Domani sapremo qualcosa di più preciso.>> Si affrettò a concludere, perché non gli riusciva di escludere completamente l’idea che qualcuno, per un movente del tutto inimmaginabile, potesse aver ucciso la fiorista.
Lo guidò nel suo ufficio, raccattando al volo i foglietti con le chiamate che gli tendeva la collega dell’ingresso.
Diede una scorsa veloce: nulla di urgente, anzi sì, qualcuno ci sarebbe stato, ma non se ne curò e infilò i cinque biglietti gialli nella tasca dei pantaloni riservandosi di provvedere immediatamente dopo aver sbrigato le brevi formalità che gli competevano.
Si mise all’ordinatore, digitò velocemente il verbale di ritrovamento. Quando arrivò alla fine, si ricordò di Ottavio e alzò gli occhi. Aspettava in piedi, dondolandosi da un piede all’altro e guardando nel vuoto:
<<Mi scusi, ho finito. Perché non siede?>>
Ottavio si riscosse:
<<Non ha importanza – rispose dolcemente – ho tempo. Le mie rose non chiedono una presenza costante, non sono amiche esclusive. Amanti gelose. Stanno come in un harem, ma senza litigare, tenendosi compagnia in silenzio, provvedendo ogni giorno alla loro bellezza con tutte le loro capacità e utilizzando tutto ciò che io e la natura abbiamo dato loro, decidendo insieme del loro aspetto definitivo. Ecco loro, quell’aspetto, concorrono sempre a mostrarlo al meglio. Non trova ispettore?>>
<<Sì, sì, certo … – rispose Magli distratto, pensando – ma vedi un po’ questo, con sua madre ancora calda, mi parla del ginecol … gineceo delle rose. Non è a posto di testa, questo è fuori di dubbio ma da qui a fare … ma no, non se ne parla nemmeno!>>
Gli chiese i documenti, scrisse rapidamente un verbale:
<<Innanzi a noi, Ispettore di P.S. Francesco Magli, è comparso il signor Ottavio … Lei è nato?>>
<<A maggio, ispettore, a maggio – rispose con una vena di furbesca soddisfazione – il tredici maggio del settantacinque. Sono nato quando sbocciano le rose …>>
<<Ecco, firmi qui e qui. Questa è la sua carta d’identità. Legga però, prima di firmare, anche se c’è scritto esattamente ciò che già sappiamo: ossia che lei è arrivato quando io ero già da qualche minuto dentro al negozio e i miei colleghi, chiamati, erano già intervenuti. Anche loro stanno scrivendo quello che hanno visto. Che lei dichiara che si trovava presso il terreno di sua proprietà, sito in località Bentivoglio, ove si reca quotidianamente per aver cura dei fiori che ivi coltiva. Va bene? Mi vuole lasciare un numero di telefono, caso mai … – e poi – la signora è all’obitorio, metteremo il cadavere a disposizione per le esequie non appena il medico … le faremo sapere. Intanto le conviene avvertire la famiglia restante, se ce n’è, e una ditta di pompe funebri …>>
Esitò e poi decise che ingiungergli di avvertire prima di allontanarsi sarebbe stato inutilmente teatrale.
<<E la signora, la signora che rosa sarebbe stata?>> aggiunse in fretta, sentendosi un perfetto cretino, quando l’altro già stava per andarsene.
Ottavio si girò di scatto, diffidente e interrogativo, come a controllare che l’ispettore non si prendesse gioco di lui.
Gli sorrise, insicuro:
<<Mia madre … mia madre sarebbe stata una rosa canina!>> rispose con rapidità, guardandolo negli occhi, ora complice ancora dubbioso.
<<Una rosa canina!>> fece eco l’ispettore cercando disperato nella sua testa un commento che potesse sembrargli intelligente.
<<Non è d’accordo?>> incalzò l’altro.
<<Beh, in un certo senso …>>
<<Ci rifletta bene e poi vedrà, sarà d’accordo con me.
In Afghanistan, nel pieno centro di Kabul, a seguito della richiesta del Presidente, è nato un giardino, un’oasi di bellezza inaugurata tre anni fa. Il sito trovato per questo scopo era un luogo di guerra, bruciato e pieno di macerie, accanto alla Galleria d’Arte Nazionale. È sbocciato così, nonostante tanta distruzione, un meraviglioso roseto, un luogo dove la gente infelice si può recare per trovare sollievo al proprio dolore: lo sapeva ispettore? Là dove tutto era guerra e distruzione, ora giovani artisti possono dipingere e comporre musica all’interno di un giardino. Una situazione quasi surreale: fuori armi e paura, dentro pace, bellezza e speranza. Bene, al cimitero pianterò un roseto che abbia la stessa funzione, sulla tomba di mia madre metterò una semplice rosa canina … – poi, come accorgendosi di aver parlato troppo – scusi, mi scusi, probabilmente a lei non importa … >>
Ottavio esitò sulla soglia dell’ufficio, attendendo un cenno di assenso: Magli era così stupefatto da non sapere affatto che cosa rispondere.
<<Oh, interessante, certo … No, no, mi importa … non sapevo … molto interessante.>>
Finse di aprire una cartellina che giaceva abbandonata sulla sua scrivania ormai da mesi:
<<Arrivederla. Condoglianze. Le faremo sapere appena sarà possibile provvedere …>> e abbassò la testa fingendo il massimo interesse per i tre insignificanti fogli a stampa che si trovavano all’interno..
<<Arrivederla, ispettore e grazie. Grazie davvero. Buon lavoro.>>
Rialzò gli occhi soltanto quando fu certo che la porta fosse stata richiusa, aspirando a un po’ di pace. Fu deluso perché immediatamente entrò uno dei colleghi che gli portava il verbale dell’intervento.
<<Metti lì.>> gli indicò con un gesto.
Non aveva voglia di parlare: improvvisamente l’aria dell’ufficio gli sembrò densa e irrespirabile, materialmente pesante sulle sue spalle. L’odore di tabacco freddo fastidiosamente mescolato a quello di vecchie carte polverose gli parve improvvisamente insopportabile, gli sembrò di riconoscere la puzza di ogni essere sporco e maleodorante che era passato di lì, le notti in cui i colleghi facevano qualche retata nel quartiere della prostituzione. Ubriachi, tossici e puttane che avevano snocciolato identità spesso inverosimili, che avevano sudato, vomitato e perfino pisciato in quell’ufficio prima di arrivare alla cella di sicurezza. Avrebbe preferito evitare, ma qualcuno doveva farlo: non era sposato, non aveva figli, non aveva vita di famiglia: i turni di notte erano generalmente suoi.
Allentò la cravatta e slacciò il primo bottone della camicia, si alzò e spalancò la finestra facendo entrare l’aria fresca e pulita, inspirò a pieni polmoni, come uno che si è appena salvato dall’annegamento, tossì e per la centesima volta decise di smettere di fumare.
Mise una mano in tasca e vi trovò i foglietti con l’indicazione delle chiamate ricevute in sua assenza. Sospirò, richiuse la finestra, li appoggiò sulla scrivania. Si sedette e li guardò: erano spiegazzati e li stirò con il taglio della mano destra. Ne gettò uno direttamente nel cestino: non avrebbe mai richiamato, non poteva permetterselo.
<<Sono un Ispettore della Polizia di Stato: NON DEVO avere rapporti intimi con una pregiudicata.>> si ripeté per la centesima volta, cercando di distogliere la sua mente dal ricordo di Annamaria – tutto attaccato, senza maiuscola – dal suo sguardo che sembrava frugargli dentro, dalle sue mani arrossate, leggere come farfalle.
<<Che brutta parola pregiudicata, pre-giudicata vuol dire giudicata prima, prima di che cosa? Che diritto ho io di giudicare prima? In fondo vuol dire che, per uno come me, lei è colpevole di qualunque cosa mi passi per la testa, PRIMA ancora di chiedermi se per caso lei si trovava a mille chilometri di distanza. Vuol dire che è colpevole di tutto, dalle stragi dell’ultima guerra al furto della Gioconda.>>
Scosse la testa. Cercò disperatamente di evocare Ofelia – Ophélie: sono nata in Francia, n’oublie pas mon chéri, non dimenticare – ma gli sembrò lontana, lontanissima dal presente che stava vivendo.
Per un attimo gli balenò il commento di Ottavio, sulle donne e le rose. Ofelia sarebbe stata una Lincoln:
<<E come caspita sono le Lincoln? – e poi – chissà Annamaria che rosa sarebbe?>>
Si riscosse : <<Che la pazzia sia contagiosa? Però è un bel pensiero … glielo dirò … aspetta … ecco…>>
Digitò rapidamente sul computer: Rosa Lincoln e poi immagini.
Gli uscì una schermata piena di rose rosso cupo, dal gambo lungo e dal fiore grande, carnoso e offerto, proprio come era Ofelia. Lesse che la varietà era stata selezionata in Francia e temette improvvisamente di oltrepassare il confine fra raziocino e follia. Spense il computer con un misto di rabbia e paura. Accese una sigaretta, aspirò con golosità, si appoggiò allo schienale, prese il telefono e compose il numero che compariva su uno dei foglietti.
Erano le solite chiamate: avrebbe potuto anticiparne il contenuto. Il collega di Commissariato Centro sollecitava quella ricerca che aveva chiesto da tre settimane e che nessuno si era curato di preparargli. Il procuratore Nicoletti gli avrebbe ricordato che stava aspettando una relazione riassuntiva sull’indagine che aveva ordinato che eseguissero, in parallelo con la Giudiziaria, senza dire nulla a nessuno. Sicuramente doveva essere trapelato qualcosa: com’è possibile che due poliziotti addentino lo stesso osso senza che uno si accorga dell’altro? E poi lui non aveva gente qualificata per portare avanti quel tipo di indagine: loro erano abituati a colpevoli sporchi di sangue, che cadevano presto in contraddizione, che avevano paura degli sbirri e terrore dei giudici, non a colletti bianchi che si riunivano nel segreto delle ville per tessere trame segrete e che magari erano pure avvocati.
<<Pronto, sono l’Ispettore Magli.>>
Ottavio aveva deciso di sbarazzarsi di tutto ciò che doveva essere gettato.
Cominciò buttando tutti i fiori che erano appassiti: l’acqua putrefatta nei vasi emetteva un odore di morte, ma non volle aprire per liberarsene.
Portò dentro il grande contenitore a due ruote che si trovava sul lato della porta del retro. Metodicamente vuotò ciascun contenitore, prima i fiori appassiti e poi l’acqua nel lavandino del retro. Con precisione lo lavò e lo asciugò. Lo ripose al suo posto sullo scaffale. Alla fine riportò il contenitore al suo posto, pulì la vetrina e passò uno straccio a terra. Si sedette e si guardò in giro. Finalmente. Finalmente nulla disturbava la sua vista.
Ma non aveva finito: aprì i cassetti uno ad uno, ne esaminò il contenuto e ne eliminò minuziosamente tutto ciò che non era compatibile con il commercio delle rose. A che cosa potevano servire i nastri azzurri? Poi si ricordò che una rosa bianca per una puerpera poteva combinarsi con un nastro di quel colore e lo raccattò dal cestino.
Quando ebbe terminato, girò il bancone di modo che la persona che serviva rimanesse nell’ombra: le rose sarebbero state le protagoniste.
Decise che avrebbe cambiato il nome del negozio.
<<Ma che senso ha Il bouquet? – pensava – impreciso, banale. Lo chiamerò La rosa. Oppure no, La regina dei fiori. Ci devo riflettere. Chissà come mai non ci ho pensato prima …>>
Allungò la mano verso la rubrica con la copertina a fiori che doveva racchiudere il nome e il numero di telefono di tutti i fornitori. Li chiamò uno ad uno e si rese conto che soltanto due di loro commerciavano specificamente in rose e che in tutto potevano offrirgliene quattro o cinque varietà. Decisamente troppo poco per un negozio che si sarebbe vantato di avere un fiore diverso per ogni diversa situazione. Si poteva mai offrire la medesima rosa per la prima comunione di una bimba e per il compleanno di una diciottenne? per una guarnizione funebre e per un bouquet da sposa? Eppure fino a quel momento, sua madre aveva fatto proprio così. Che orrore, che mancanza di gusto e di delicatezza!
Si guardò in giro, tutto era pronto. Mancava l’essenziale. Prese un blocco e una penna, cominciò a scrivere. Stilò un lungo elenco di rose, ne cancellò alcune, ne sottolineò altre. Per i matrimoni avrebbe proposto la Memoire Korzuri, color bianco panna, dall’intenso profumo di rosa Tea e dal lucido fogliame verde scuro. Per le ricorrenze delle bimbe, avrebbe invece scelto la Eliza, dal colore rosa argento e dal profumo leggero. E poi, per i clienti speciali, per le donne che davvero contavano…
Si riscosse, uscì, prese l’auto e si diresse rapidamente a Bentivoglio, dalle sue rose. Arrivato, prese le cesoie e recise alcune Josephine Bruce, grandi fiori rosso scuro dai petali vellutati e carnosi. No, le Lincoln erano banali: non le avrebbe fatto quell’offesa. Cercò un foglio trasparente senza trovarlo, si limitò a tenerle insieme con un filo di rafia e ad avvolgerne i gambi con un poco di carta d’alluminio. Vi affondò il viso inspirando profondamente e fu come immergersi nelle tenere carni di una donna.
Quando appoggiò il dito sul campanello di Ophélie Amandier, il cuore gli batteva forte e gli mancava il respiro. Sentì il rumore dei tacchi e un grazioso canticchiare da contralto.
Quando gli aprì era leggermente discinta e, nel prendere i fiori, la vestaglia si scostò lasciando intravedere la sua pelle lattea e le sue carni morbide e abbondanti. E quella vista lo abbagliò.
Suonò il telefono all’interno e Ofelia vi si affrettò, facendogli segno di seguirlo. L’appartamento era in penombra, su un tavolo basso bruciava un profumo, a terra erano sparsi cuscini di seta. Ottavio inciampò e rischiò di cadere, appoggiò una mano sullo schienale di un’enorme poltrona e si guardò in giro meravigliato: questo appartamento non somigliava ad alcun altro. L’arredamento orientaleggiante, i folti tappeti, le grandi tende di seta … no, non aveva mai visto nulla di simile.
<<Mi scusi se l’ho fatta attendere! – lo sorprese arrivandogli silenziosamente alle spalle – ma non c’è biglietto … le devo qualcosa? Ma questi non sono i soliti fiori …>> aggiunse guardandolo interrogativa.
<<No, io … no … sono rose che coltivo io … io … sono già venuto qui … ho consegnato delle Lincoln del … per lei! – concluse frettolosamente, volendo evitare perfino il nome del mittente, come se ciò potesse evocare la presenza di un rivale pericoloso e potentissimo – ho pensato che queste, le Memoire, più si addicessero alla sua bellezza e le somigliassero un po’. Il profumo … è quasi lo stesso … il colore … >> poi tacque affascinato, perché si accorse che Ofelia, abbassando il viso fra i fiori, faceva scorrere voluttuosamente le labbra socchiuse su di un petalo esattamente dello stesso colore del rossetto.
<<La medesima grana, la stessa tonalità carminio>> pensò Ottavio provando un leggero capogiro e un crampo al basso ventre che gli provocò un sospiro, quasi un gemito.
<<Ma perché … perché a me?… queste bellissime rose, sono confusa … la ringrazio, signor …>>
<<Ottavio … – esitò nel tenderle la mano, sembrandogli eccessivo anche quel semplice contatto fisico – piacere, mi scusi … avrei dovuto presentarmi…>>
<<Perché? – insistette Ofelia provocatoria, che certo da donna esperta già conosceva la risposta, ma aspirando ad ascoltare ancora una volta il complimento e godendo maliziosamente del turbamento di lui. Poi, più volubilmente – si accomodi, posso offrirle qualcosa? Gradisce un caffè, una bevanda fredda?>>
Ottavio sudava copiosamente sentendo l’eco del battito cardiaco inspiegabilmente nelle orecchie, come l’eco di un rapido passo militare, capì che la sua sola salvezza era nella fuga e decise che doveva andarsene immediatamente.
Non sedette, rifiutò recisamente il caffè e la bevanda, si girò, fece un passo verso la porta:
<<No, no … me ne devo andare … il negozio … non c’è nessuno, ma madre non c’è più, mi scusi la ringrazio, tornerò … se lei permette>>
Ofelia si era appoggiata allo stipite godendo ironica del suo imbarazzo:
<<Allora, non starà scappando, per caso! Le faccio tanta paura? Ti faccio tanta paura, Ottavio?>> gli chiese sorridente, ponendogli una mano sul braccio nudo.
Tutto il suo essere fu cosciente di quella leggera pressione e dell’intensa bruciatura che provocava, allora aprì la porta farfugliando un saluto e finalmente fu in salvo sul ballatoio. Scese le scale con le ginocchia che tremavano, tenendosi al corrimano per non cadere, inseguito da una risata il cui eco lo accompagnò fino alla strada. Cercò nelle tasche le chiavi della macchina, aprì faticosamente con mano tremante e sudata, si lasciò pesantemente cadere al posto di guida, richiuse la portiera e solo allora inspirò profondamente per ritrovare un po’ di ossigeno. Si toccò il braccio con un dito, cercando un segno che non c’era, e scoppiò in lacrime: perché, perché non era stato capace di rispondere a tono? perché era scappato? perché gli accadeva sempre così? perché?
Quando i singhiozzi si calmarono, si asciugò il viso guardandosi intorno e temendo di essere stato osservato. La strada era semideserta e i pochi passanti si affrettavano verso la loro meta senza guardare altro che il percorso davanti a sé.
Mise allora in moto e, rilassandosi un po’, si diresse verso le sue rose.
Avrebbe preparato gli innesti che, nella confusione di quegli ultimi giorni, aveva completamente dimenticato.
La stagione era ideale: non ancora troppo calda, nemmeno troppo fredda. I porta-innesto di rosa canina, perfettamente adatti al terreno leggermente calcareo, vigorosi e perfettamente radicati. Tastò con la mano il coltellino che portava sempre richiuso nella tasca sinistra, lo accarezzò con un dito sentendolo quasi tiepido e ne ricavò una strana e imprevedibile soddisfazione.
Incidere il taglio a T sul colletto del rosaio porta-innesto, divaricare le labbra con l’apposita sporgenza del coltello, inserirvi delicatamente ma con rapidità la gemma prelevata dallo stelo fiorito della pianta da innestare gli procurava un piacere intenso e incomprensibile. Effettuare una salda legatura con rafia inumidita e poi attendere. Attendere la vegetazione, prova della vitalità del suo prodotto, un essere creato proprio da lui, come un feto che cresce sì nel grembo della femmina, ma che senza il provvido intervento maschile, la penetrazione cruenta e l’inserimento del principio vitale non può aver origine.
Guidando, Ottavio già pregustava il suo intervento creatore. Quando arrivò – ci volevano soltanto venticinque minuti – sapeva esattamente ciò che doveva fare.
Parcheggiò l’auto dietro la minuscola serra, vi entrò e – spazzato un piano di lavoro, liberandolo di tutto ciò che era inutile – vi trasportò una cassetta da germinazione. Era pesantissima e conteneva una quarantina di pianticelle alte una decina di centimetri, di cui la maggioranza portava già un fiore. I colleghi consigliavano di riporle ciascuna in un singolo contenitore, ma avevano torto. Le sue rose erano diverse, amate tutte individualmente e curate con attenzione maniacale, non nutrivano alcuna gelosia reciproca e crescevano in perfetta sincronia. Sorrideva: delle quarantotto pianticelle, ben quarantaquattro erano già fiorite. Avrebbe divelto le quattro rimanenti: non poteva permettere il cattivo esempio!
Si punse e la spina penetrò profondamente nella carne: impossibile, si stavano ribellando! Le gettò a terra e le calpestò violentemente: dovevano capire chi comandava.
Gli batteva forte il cuore e gli tremavano le mani: si inginocchiò ad osservare da vicino il risultato. Le poche foglie ormai distrutte e lacere giacevano inanimate: respirò a fondo, senza chiedersi l’origine dell’energia improvvisa che sentiva nascere dentro di sé, che gli faceva gonfiare il petto mentre meticolosamente spazzava, che gli faceva assumere un atteggiamento eretto, quasi marziale.
Avrebbe potuto evitare simili incidenti, calzando guanti da lavoro, ma tale pratica gli era sempre parsa impossibile: forse che un amante indossa un paio di guanti prima di stringere a sé la propria amata?
Uscì che il sole stava per tramontare e l’aria si era fatta leggermente umida, come doveva essere quando si praticavano innesti, così aveva letto in un libro tanto tempo prima, quando ancora credeva che la nascita delle rose fosse un caso, una coincidenza. Aveva scoperto che poteva essere opera di un Creatore: lui.
Doveva distribuire su alcune una leggera quantità di concime, stallatico invecchiato a sua cura in un angolo del terreno. Altre invece dovevano essere innaffiate con una minuscola quantità di un liquido simile a sangue, dal forte odore ferroso e dal colore violaceo. Per un attimo pensò all’effetto che avrebbe avuto sul terreno e sulle piante una piccola quantità di sangue umano: la risposta poteva essere ottenuta al cimitero, quando avrebbe piantato il cespuglio di rosa canina sulla tomba di sua madre. Si guardò in giro: ce n’erano una decina, ma tutte rigogliosamente radicate nel terreno. Non potevano essere divelte. Ne avrebbe dunque preparata una, scegliendo accuratamente il ramo più robusto e il colore più dolce.
Lavorò senza rendersi conto che il tempo passava e smise solo quando l’aria si fece pungente e il sole sparì dietro la collina.
Allora ripose minuziosamente gli utensili dopo averli ripuliti, asciugò con attenzione, ripiegò e ripose il coltello da innesto nella tasca sinistra, chiuse a chiave la piccola serra, mise in moto e – perfettamente padrone di sé – ritornò in città.
Guidò senza meta per un po’, gustando la sensazione di libertà che provava ogni volta: andare, fermarsi, ripartire, osservare senza essere visto, inebriarsi degli odori che entravano dal finestrino semi aperto insieme all’aria fresca del crepuscolo gli era sempre piaciuto.
Si ritrovò, dopo quasi un’ora di girovagare, in Via Donati, davanti al portone di Ofelia. Si riscosse: non lo aveva voluto, ma parcheggiò dall’altra parte della strada, osservò i passanti che rientravano frettolosamente dal lavoro senza far caso a lui. Guardò in altro, alle finestre che andavano illuminandosi, individuò la sua, ancora spenta: forse era uscita e, in questo caso, l’avrebbe vista rientrare, nascosto dalla penombra che ormai l’avvolgeva.
Dimentico di sé, stava per appisolarsi – era ormai notte fonda – quando la finestra di lei s’illuminò: nel silenzio ormai totale la sua risata squillante gli diede un brivido suggerendogli l’immagine di intimi scenari. Dopo poco, qualcuno accese la luce nelle scale, poi nell’androne. Una figura scura usciva frettolosa e lì per lì non la riconobbe, poi – più attento – si accorse che si trattava di una sua recente conoscenza, l’Ispettore Magli, perché questi, aprendo la portiera e prima di salire nella sua auto, si girò verso la finestra e, alzando il viso verso la luce, accennò un gesto della mano, subito frenato dalla constatazione che Ofelia non si era affacciata.
Si affacciò dopo. E a Ottavio sembrò che cercasse proprio lui.
La sua carne bianca e splendente nella luce del lampione si stagliava nitida, gli avambracci appoggiati sul davanzale, il seno turgido appena velato dai capelli corvini liberi sulle spalle. Dopo un tempo che gli parve interminabile, indietreggiò offrendogli la brevissima visione di una figura generosa e morbida, immediatamente inghiottita dall’oscurità.
Pensò a come sarebbe stato incidervi un taglio a T, divaricarne le labbra per prepararla all’innesto, pensò a come la natura ripeta soltanto sé stessa e gli stessi identici gesti. Mise la mano nella tasca sinistra e accarezzò il coltellino.
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